La Gita
La gita scolastica è, in assoluto, l’attività più attesa dagli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Parlando di superiori, poi, l’attesa raggiunge livelli parossistici. Mentre il primo giorno di scuola è caratterizzato dai riti del riambientamento: la caccia al banco più defilato; la personalizzazione dello stesso con affreschi e bassorilievi, talvolta di una certa bellezza; l’impostazione grafica del diario-agenda, prezioso strumento la cui compilazione impegnerà le migliori energie degli alunni/e nel corso dell’intero anno, dal secondo giorno il tormentone è sempre lo stesso: «Prof, lei ci porta in gita, vero?». Alla fatidica domanda solo i più esperti e cinici riescono a glissare, tutti gli altri, senza neanche cogliere gli oscuri e minacciosi presagi di quel «vero?», balbettano un assenso variamente condizionato considerato però dagli alunni come giuramento firmato con il sangue.
Una volta assicuratasi, in questo subdolo modo, la disponibilità di almeno sei professori più tre di riserva, si passa alla fase due: la destinazione. Vengono proposte con convinzione granitica le località più incredibili in numero direttamente proporzionale al numero degli alunni, cioè 22 alunni 22 località diverse, poi iniziano sanguinose lotte intestine nelle quali ognuno decanta le meraviglie della sua scelta.
In due mesi di concertazione vengono ridotte a tre sostenute da agguerrite fazioni che pongono sistematicamente il veto sulle altre proposte. Esemplifichiamo:
Proposta A.
Cinque giorni a Barcellona.
Motivazioni:
1 - Gli spagnoli (o le spagnole, a seconda) hanno il sangue caliente (loro non dicono proprio così, ma ci siamo capiti).
2 - C’è stato mio cugino l’anno scorso e mi ha detto che le ramblas sono da sballo.
Obiezione: tre giorni partono per il viaggio.
Contro-obiezione: «Mio zio con il Porsche, casello-casello, ci ha messo otto ore».
Proposta B.
Due settimane in Giamaica.
Motivazioni:
1 - Spiagge incontaminate, reggae, fumo obbligatorio.
2 - C’è andato un mio amico l’anno scorso e non è ancora tornato.
Obiezione: «Non costerà un po’ troppo?».
Contro-obiezione: «Vendiamo gli arredi scolastici e tutto il materiale dell’aula di informatica; il ricavato lo investiamo in marjuana giamaicana e lo rivendiamo in tutto il Valdarno (ci ho anche un cugino che lavora in una fabbrica di cartine!)».
Obiezione 2: «Troveremo degli accompagnatori?».
Contro-obiezione: «Il supplente di scienze ha giurato che ci avrebbe portato in capo al mondo!».
«Ma va via fra una settimana!».
«Cavoli suoi!».
Proposta C.
Cinque giorni a Monaco di Baviera.
Motivazioni:
1 - C’è la più grossa birreria d’Europa.
2 - Mio fratello ha detto che c’è una discoteca a 16 piani con i decibel in progressione e che dal 12° in poi balli fissato alle pareti con delle cinghie altrimenti l’onda d’urto ti fa volare di sotto; e i buttafuori sono naziskin espulsi dal movimento perché troppo violenti: uno sballo!
Obiezione: nelle birrerie gli italiani non sono graditi.
Contro-obiezione: «Io parlo Inglese! Ci ho quasi la sufficienza! E poi mia zia da giovane è andata all’Oktober-fest e lì danno da bere a cani e porci». «Noi andiamo a marzo!». «Sì, ma mio cognato lavora alla Moretti e ha anche un autografo di Iachetti!».
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La tenzone dura mesi, senza giungere a un accordo, sinché la classe non viene aggregata all’ultimo momento a una gita di tre giorni con le prime, nei monasteri francescani del centro Italia. Va anche detto che la destinazione, in realtà, non è assolutamente il problema principale degli studenti, le priorità sono ben altre!
A questo scopo analizziamo le motivazioni ufficiali della gita scolastica, come da Pof (per i non addetti ai lavori trattasi del Piano dell’Offerta Formativa, in pratica ciò che una scuola si propone di fare).
Finalità di socializzazione. Cinque minuti dopo essere saliti sul pullman (sorvoliamo sulla furibonda caccia ai posti in fondo, prova di destrezza e coraggio con la quale si determinano i rapporti di dominanza all’interno del gruppo) gli studenti hanno già indossato cuffiette o auricolari sparando i walkman a volumi da discoteca.
Se un incauto prof chiede che musica stanno ascoltando deve farlo utilizzando l’alfabeto muto o segnalando con le bandierine perché mai e poi mai uno studente abbasserà il volume, continuando a urlare seccato: «Prof! Si spieghi meglio! Non sento!».
Se, per caso fortuito, il prof riuscirà a farsi capire, gli toccherà, per par-condicio, farsi il giro di tutti gli studenti che gli infileranno sino al timpano auricolari con cerume personalizzato, alzeranno il volume e ammiccheranno complici come a dire: «Questa sì che è musica, eh?». Il prof tornerà al suo posto in stato semi confusionale rimpiangendo i Dik Dik e Mino Reitano. Dopo mezz’ora quasi tutti dormono. Al risveglio si passa alla fase socializzante n° 2: i telefonini. Ognuno tira fuori il suo (ultimissimo modello, mica come quel mattone che ci ha il prof!) e telefona, o ancora meglio scrive messaggini, o ancora ancora meglio fa squillini a tutti gli amici e fidanzati presenti in agenda. Quando ha finito, si predispone a ricevere telefonate, messaggini e squillini dagli stessi. Il tutto può andare avanti ore (da notare che spesso buona parte degli amici si trovano sullo stesso pullman, magari due sedili più in là). Famoso il caso della Turcio che restò attaccata al telefonino con il fidanzato per sei ore consecutive, comprendenti anche una visita guidata agli Uffizi, senza accorgersi che, avendole la Cecchi sostituito per scherzo il cellulare con la sua radiolina, aveva tubato per tre ore con gli speaker di radio DJ.
La terza fase socializzante è il film da pullman. La visione è accompagnata da pesanti commenti-apprezzamenti sui principali attori-attrici, da continue richieste di alzare o abbassare il volume (spesso contemporaneamente: questa è la principale causa della «sindrome schizofrenica indotta», tipica patologia che colpisce il 70 per cento degli autisti) e da cori da stadio a sostegno degli eventuali buoni o cattivi.
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Finalità istruttive.
La visita a chiese, musei e monumenti vari è l’odiato scotto che gli studenti sono costretti a pagare per effettuare la gita. In tal senso essi hanno elaborato svariate strategie per limitarne al massimo l’impatto. Occorre distinguere due tipologie: la visita libera e la visita guidata.
Visita libera: la più apprezzata. Con un po’ di allenamento alcuni studenti sono in grado di girarsi musei immensi in una manciata di minuti.
Alcuni record significativi:
Museo del Louvre: il mitico Chime nel 1997 in 8’ e 12’’ (compresa mostra tematica sui fiamminghi).
Basilica di S.Pietro: Casproni nel 1995 in 3’ e 54’’ (risultato di particolare valore tenendo conto che all’altezza della Pietà di Michelangelo ha scontrato un turista giapponese e se l’è dovuto portare a cavalluccio sino all’uscita).
Acquario di Genova: Bettori e Caramallo nel 2002 in 2’ e 51’’ (compresa la foto con il pinguinone di peluche) purtroppo non omologato per non aver grattato la testa alle razze. I più abili in ogni caso dopo pochi metri, camminando in retromarcia, riescono dall’ingresso e festa finita.
Visita guidata: il vero terrore. Non c’è scampo, e lo studente lo sa. Le guide seguono corsi che ricalcano l’addestramento delle teste di cuoio tedesche, ma più difficili. Quando questi personaggi, per molti versi eroici, mettono le mani su un gruppo-gita, non c’è tentativo di fuga che tenga: due ore di approfondimento psicologico sui personaggi dei mosaici di Ravenna o sul monumento di turno, non te le leva nessuno.
Inutile fingere malori: le guide sono in grado anche di effettuare piccoli interventi chirurgici con mezzi di fortuna e conoscono tutte le tecniche di pronto soccorso (ne sa qualcosa il simpatico Fidolini che simulò uno svenimento per evitare il Museo etnologico di Budapest, ma fu prontamente rianimato da una gigantesca guida ungherese maschio con massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca); inutile aggregarsi ad altri gruppi (sono sempre più lenti del tuo, vedi Leggi di Murphy); ancora più rischioso far finta di perdersi: ci provò la Morello nelle grotte di Toirano: beccata subito e costretta a sorbirsi un secondo giro con approfondimento sui punti di riferimento topografici del sottosuolo in compagnia di Alberto Angela.
A questo punto si sarebbe portati a ritenere che le finalità di istruzione e quelle istruttive non vengano del tutto raggiunte. Uscendo dal protocollo però l’analisi del fenomeno va completata con alcune x («altre» mi sembra ridondante) costanti.
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La sosta in autogrill (o dell’impellenza).
Esistono statistiche: il tempo che intercorre fra la partenza del pullman e la domanda: «Prof, quando ci fermiamo all’autogrill?» non può superare i cinque minuti. Non è un semplice luogo di sosta, spesso è il punto di arrivo, il fine ultimo, in una parola l’impellenza. Cos’è che spinga generazioni di studenti a porsi come ragione di vita la fermata in questi luoghi resta un mistero. Forse il fascino della «rustichella»? La tentazione del «menù buon mattino»? O saranno quei colori, quegli audaci abbinamenti fra formaggi e salumi tipici, hit-parade e accessori per macchina? Ma allora basta andare al supermercato più vicino! Cos’ha l’autogrill che l’Ipercoop non ha?
Chissà... forse è l’effetto mandria creato dal gruppo, forse è il sentirsi parte di un popolo di viaggiatori, forse... (pensieri...). Comunque sia, la sosta in autogrill è un momento irrinunciabile della gita scolastica, e così si vedono queste scolaresche prenderli allegramente d’assalto e uscire cariche di ogni ben di Dio (talvolta anche regolarmente pagato): patatine, lattine, caramelline, salatini, dolcetti, noccioline, ma anche pile, pellicole fotografiche, occhiali da sole, peluche, videocassette, cd, super alcolici, giacconi da regata.
Un’autentica frenesia, nessuno che si sogni di portarsi queste cose da casa, vuoi mettere comprarle in autogrill pagandole il doppio? Che soddisfazione! Ingenti patrimoni vengono bruciati nel giro di pochi minuti insieme a enormi quantità di tabacco (minimo due sigarette a testa per recuperare il no-smoking da pullman).
Le classi risalgono sul pullman felici e contente lasciandosi dietro la consueta scia di lattine vuote, kleenex sporchi, involti di patatine, cartocci vari in attesa della prossima attività pluridisciplinare di educazione civica e scienze (titolo: Inquinamento: che fare?), e del prossimo autogrill. In tutto questo tempo il prof, rigorosissimo, dopo essersi concesso la botta di vita di un espresso al bar, ha ingurgitato mestamente un panino al salame nostrano portato da casa insieme ai succhini in brik sognando un «rustico» o un «positano» (o un rustico a Positano? boh!).
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La formazione delle camere
Il professore veramente organizzato ha già con sé l’elenco delle camere d’albergo, la loro capienza e la dislocazione sui piani. Grazie a ciò è in grado di formare i gruppi camera durante il viaggio. Questa attività, di particolare delicatezza, porta via due ore buone. Da una parte ci sono i ragazzi che fanno garbate proposte del tipo: «No! Io in una doppia con Catucci neanche morto! Ci puzzano i piedi e rutta come una balena!» (come una balena??), oppure «Prof, a noi ci aveva promesso una da quattro! Si ricordi che ha una bambina piccola», o anche: «Prof, ma se io, Lalla, Rossella, Martina, Giulia, Sara, Vanessa e Alice ci stringiamo un po’ in quella da tre?». Dall’altra i Prof che fanno e disfano abbinamenti in base ai profili psicologici, alle affinità caratteriali o alla pura e semplice limitazione del danno.
Dopo faticose trattative si giunge, in genere, a una conclusione soddisfacente per tutti: ogni studente ha la sua camera, ogni camera ha i suoi studenti. Bene! Corre l’obbligo di rilevare che tutto ciò risulta totalmente inutile: un puro esercizio di retorica e di arte contrattuale, o forse semplicemente una tattica per illudere i professori. Infatti, nessuno studente che si rispetti dormirà mai nella camera che gli è stata assegnata, pena l’esposizione al pubblico ludibrio.
Dormire è una parola grossa, richiama lenzuola profumate, guanciali di piume, materassi confortevoli, mentre, prima di tutto, i nostri eroi provvedono a personalizzare le loro camere con innaffiature di Coca e alcolici vari, briciolame alimentare assortito, coltri di fumo modello raffineria, puzza di piedi e deodoranti; e poi in gita, per definizione, non si dorme, al massimo ci si schianta: è il fisico che, a dispetto del cervello che avrebbe programmato chissà quali altre spericolate avventure, ad un certo punto, dopo due notte di scorribande, marca visita stramazzando al suolo. Gli studenti vengono ritrovati privi di sensi nei luoghi più disparati: terrazzini, corridoi, ascensori. Va da sé che durante il giorno si registri qualche scompenso: intere scolaresche si aggirano per le strade delle più belle capitali europee in stato di trance, zombie al rallentatore, sguardi vacui, articolando a fatica monosillabi solo in caso di esigenze primarie fa-me, se-te, pi-pì. I professori commentano soddisfatti: «Però, oggi sembrano più tranquilli».
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La doccia (o dell’apparire).
Durante l’ultima conferenza mondiale sull’acqua i vari esperti internazionali si sono scordati di menzionare una fra le principali cause del progressivo impoverimento delle risorse idriche: la gita scolastica. Mi spiego. Io non so con quale frequenza il 15/18enne medio si faccia la doccia a casa propria. Di sicuro so che in gita la doccia diventa un’attività irrinunciabile.
Vengono stabiliti turni rigorosi all’interno delle camere in modo da permettere minimo una o due docce quotidiane a testa. Alunni notoriamente poco avvezzi ai detergenti si sottopongono ad attese snervanti pur di potersi avvalere del diritto-dovere di farsi «una sana doccia». Non è un caso che nella top ten delle domande più frequenti in gita, accanto alla già menzionata sull’autogrill e alla sempre gettonatissima: «Prof, ci porta in discoteca?», mantiene saldamente un’onorevole terza posizione la seguente: «Prof, ma c’è tempo per farsi la doccia, vero?». E così le camere, prima di cena, si trasformano in luoghi quasi irreali, dove, in mezzo a nuvole di vapore profumato ed effluvi deodoranti, i ragazzi/e si scambiano i doccia-shampoo, si consigliano balsami alle erbe, si abbandonano a sottili distinguo sull’efficacia degli antitraspiranti e dei gel «effetto bagnato».
Dopo di che ha inizio il rito della vestizione. È necessaria una premessa: come mai i professori si presentano alla partenza della gita con una valigia medio-piccola più zainetto, mentre gli studenti (e ancor più le studentesse) arrancano con due valigioni rigonfi modello crociera più zainetto, borsetta, marsupio?
Semplice, i prof portano il necessario, gli studenti portano tutto, il guardaroba (più qualche capo sottratto ai fratelli/sorelle maggiori). Ovvio che non potranno indossare tutto ma la scelta del vestito da mettere quella sera non ammette limitazioni di sorta. «Prof, come sto?»: i corridoi degli alberghi si trasformano in passerelle da sfilata parigina dove le studentesse incrociano esibendo ardite toilette e improbabili abbinamenti in un turbinio di minigonne, scarpe con tacchi e punte, magliette adesive, jeans strappati, ombelichi e schiene nude.
Per non parlare del trucco: dove sono finite le innocenti ragazzine che nelle lunghe mattine di scuola con gli occhi insonnoliti e il volto emaciato abbozzano tentativi di attenzione? Rimmel, mascara, rossetti e fondi tinta operano trasformazioni inimmaginate.
Capita di entrare nella sala dell’albergo per la cena e uscirne imbarazzati pensando di avere sbagliato comitiva. E invece sono proprio loro, novelle cenerentole pronte per un giro di danza con invisibili principi. I professori si stringono nei pulloverini: «Cosa si inventa per il dopo cena?».
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«Dove siamo?». «Dove andiamo?». Ma soprattutto: «Quando arriviamo?» (O dello straniamento).
L’insigne neuropsichiatria Karl Offenbach dell’università di Vienna ha definito «deficit da straniamento spazio-temporale» lo stato all’interno del quale precipita il 95 per cento degli studenti dal momento in cui mettono piede sul pullman che li porterà in gita: «Si tratta della sconnessione simultanea di alcune sinapsi che collegano i centri della memoria con la corteccia sensitiva».
Risultato: lo studente si comporta come se avesse il quoziente intellettivo di un bradipo idiota. Le tre domande vengono ripetute con frequenza ossessivo-paranoica durante tutto il viaggio, in questo il professor Offenbach ravvisa «una ricerca di sicurezza, un approdo certo, da parte dei giovani d'oggi, causati dalla crisi dei valori tipica delle opulente civiltà occidentali».
Facciamo qualche esempio partendo dal «Dove siamo?».
Va detto subito che questa domanda ha avuto un incremento esponenziale a causa della diffusione dei cellulari. Infatti mentre prima lo studente, sostanzialmente, se ne strafregava di dove si trovasse, con l’avvento dei telefonini la sua beata ignoranza è entrata in crisi. Infatti ognuna delle 20-30 telefonate quotidiane che lo studente riceve in gita comincia immancabilmente con la fatidica domanda: «Dove siete?». Il «dove sei?» ha ormai soppiantato il classico «come stai?» nelle comunicazioni telefoniche standard, il che non può non avere ripercussioni sulla psiche già fragile degli adolescenti d’oggi, innescando ulteriori incertezze del tipo: preferisci sapere dove sono invece che come sto? E se avessero inventato i viaggi nel tempo mi chiederesti «quando sono?». (Al che salutiamo per sempre l’Offenbach perché ci ha abbondantemente rotto gli zebedei).
Ritorniamo al nostro studente, alle prese con il misterioso interlocutore all’altro capo del telefono desideroso di conoscere le coordinate geografiche (anche se spesso all’interlocutore non gliene può fregare di meno, lo fa per sfruttare le potenzialità del mezzo). Il primo istinto dello studente gli farebbe rispondere «ma che cavolo ne so», chiudendo la questione; ma poiché all’altro capo del telefono si trova spesso un genitore, il nostro è costretto a informarsi, al che alza lo sguardo un po’ indispettito e si rivolge al primo professore che gli capita a tiro simulando, talvolta, anche un certo interesse: «Prof, dove siamo?».
Immaginate la situazione: in pullman sulla Firenze-Roma. Si risponde tentando di stimolare un minimo consapevolezza: «Se guardi i cartelli verdi, ogni km c’è scritta l’uscita più vicina e la sua distanza». Incrociano il seguente cartello: Orvieto 15 km.
Prof: «Hai visto?».
Studente: «Visto cosa?».
Prof: «Il cartello».
Studente: «Quale cartello?».
Prof: «Quello che abbiamo appena passato».
Studente: «Che palle, Prof! Ma non fa prima a dirmelo lei?».
Prof (paziente): «Sì, ma devi imparare, ecco, guarda che arriva un altro cartello».
Incrociano un altro cartello: ROMA 180 km.
Studente trionfante al telefonino: «Siamo a Roma!».
Silenzio preoccupato all’altro capo del telefono (anche perché la destinazione della gita è Orvieto).