Voglio copiare qui sopra un articolo di Pg Battista del Corriere (di nuovo, non di certo un sinistrorso)
mi pare un'efficace sintesi della storia di quest'ultimo Governo:
Nel luglio 2008 un Berlusconi sorridente e spavaldo annunciava che l'emergenza dei rifiuti in Campania era stata risolta. Un anno dopo, l'espressione furente e recriminatoria con cui Berlusconi aveva imposto alla Rai una prima serata per magnificare le case ricostruite in tempo record nell'Abruzzo del terremoto, fu il segnale di un clima psicologico radicalmente cambiato nel governo che proprio ieri si è spento. La sicurezza di sé era stata soppiantata dall'incertezza. La luna di miele si era vanificata. Il sorriso era già scomparso dal volto di Berlusconi: neanche le proverbiali barzellette riuscivano ad attenuare la tensione crescente.
Il «governo del fare» era nato sotto i migliori auspici. Per la terza volta dal 1994, Berlusconi si era presentato in Parlamento con un discorso aperto alle opposizioni, conciliante, quasi ecumenico. Ma stavolta appariva più forte. Fortissimo. Tutti gli accreditavano una vita lunga, tanto che i nemici già paventavano una interminabile notte del «regime». Aveva sbaragliato l'avversario. Godeva della più ampia maggioranza parlamentare mai conosciuta nella storia repubblicana. Il rapporto con il capo dello Stato era cordiale, tanto che il Quirinale, soltanto due mesi dopo, non porrà ostacoli, pur provocando l'ira dell'opposizione dipietrista e giustizialista, alla promulgazione del «lodo Alfano» che avrebbe messo Berlusconi al riparo dalle incursioni giudiziarie. Le forze sociali o erano della sua parte o avevano tacitamente deciso una tregua. In Confindustria il presidente del Consiglio veniva vezzeggiato come un collega da incoraggiare. Due dei tre sindacati maggiori tutto avevano in mente, tranne che scatenare la guerra con il nuovo governo.
aranno gli storici a spiegare come il governo abbia dilapidato questo capitale di fiducia. A caldo, l'opinione prevalente è che negli ultimi mesi, l'uragano finanziario ed economico sia stato affrontato da un governo inerte e inghiottito da una spirale di autosopravvivenza. Ma non è vero. O meglio, non è vero per Berlusconi. Il quale ha sostituito un ministro dell'Economia come Tremonti silente, assente, rancoroso e ostile. Ha tenuto un collegamento con l'Europa, mentre la Lega faceva ostruzionismo sulle pensioni di anzianità. Ha risposto con manovre dolorose alle sollecitazioni contenute nella lettera della Bce. Non è bastato. Ma non è paradossale dire che le due fasi più fertili del governo Berlusconi abbiano coinciso proprio con gli ultimissimi mesi e con i primissimi mesi. È in mezzo, per almeno due anni, che il governo che ieri è caduto si è dimostrato inconsistente, paurosamente al di sotto delle aspettative, incapace di «realizzare le promesse» come, nel lessico berlusconiano, viene definita l'attuazione di un programma.
All'inizio era sembrato il salvatore: via l'immondizia da Napoli, soluzione del problema Alitalia, intervento tempestivo sul terremoto in Abruzzo, una campagna molto efficace, d'intesa con Renato Brunetta, sui «fannulloni» nel pubblico impiego, una politica di contenimento dei costi che Tremonti aveva virtuosamente presentato come la cessazione dell'attaco alla diligenza tipica delle Finanziarie. Ma quell'inizio si fermò lì, proprio quando, a Onna, il premier con il fazzoletto partigiano sembrava davvero aver pacificato l'Italia sotto il suo regno. Macché: dalla pace si passò alla guerra. L'annuncio sostituì le cose, il talk show urlato prese il sopravvento sulla normale attuazione di un programma. E con l'eccezione di Maroni, ministro dell'Interno in un periodo di arresti massicci di mafiosi e camorristi, i ministri che si agitavano attorno a Berlusconi non diedero un grande contributo alla riuscita del quinquennio berlusconiano.
Brunetta, dopo la battaglia contro i «fannulloni», si mise a inveire contro i precari. Calderoli, chiamato a semplificare e diminuire il numero delle leggi, si fece immortalare in un grande rogo che avrebbe dovuto annichilire la montagna di leggine inutili: la montagna è restata lì. Bondi si è dimesso dalla Cultura. Lo avevano accusato addirittura del crollo di Pompei, ma i beni culturali non hanno conosciuto una stagione d'oro. Tremonti era diventato il cattivo dei «tagli lineari». Tutti si lamentavano, ma non volevano passare per i responsabili di tagli che un governo di centrodestra non avrebbe mai dovuto tollerare, a cominciare da quello riservato ai fondi per le forze dell'ordine. E mentre poliziotti e carabinieri dovevano quotidianamente fare i conti con la mancanza di benzina per le loro vetture, il ministro della Difesa La Russa escogitava il nuovo uso dei militari come ronde per l'ordine pubblico, da sacrificare sul feticcio della «sicurezza» promessa e mai raggiunta. Le infrastrutture su cui tanto avevano puntato latitavano, e quando il premier in Aula, spalleggiato dal ministro Matteoli, annunciò che per il completamento della Salerno-Reggio Calabria era soltanto questione di settimane, quando addirittura si diede per fatta, sostanzialmente fatta, la messa in opera del Ponte sullo Stretto di Messina, il divario tra le parole e le cose apparve a tutti troppo spiccato per non essere accolto da un certo disincantato sarcasmo.
È come se i ministri del governo Berlusconi, mentre il loro leader si riavvitava nel linguaggio bellicoso contro tutti, dalla magistratura alla stampa, dai «poteri forti» alla Corte costituzionale, si fossero dimostrati del tutto sprovvisti del senso della pacificazione: sempre a fare a botte, sempre a questionare in un salotto televisivo, sempre a indicare complotti, nemici, «traditori». Sul caso triste e penoso di Eluana Englaro si ingaggiò una battaglia che aveva come bottino una legge sul testamento biologico rigidamente ostile a ogni principio ragionevole di responsabilità degli individui e si arrivò, in Senato, a indicare negli avversari politici gli «assassini» di Eluana. La foto di Berlusconi alla festa di compleanno (anni 18) di Noemi Letizia, il caso D'Addario, il Rubygate segnano una svolta cruciale nel comportamento del governo. Con la sentenza di incostituzionalità del «lodo Alfano», la guerra con la magistratura diventa totale modellando ogni scelta dei ministri e della maggioranza. Il ministro Alfano promette una radicale riforma della giustizia che metta al primo posto la separazione delle carriere, ma intanto si procede per decreto con una raffica ulteriore di leggi ad personam: la prescrizione breve, il processo lungo, il legittimo impedimento che verrà usato anche da un nuovo ministro Brancher, costretto a dimettersi con la stessa velocità con cui era stato, a sorpresa, nominato.
Gli altri ministri spariscono, o riemergono per i dissapori che di volta in volta affiorano per i «tagli lineari» imposti da Tremonti, come i ministri Carfagna e Prestigiacomo. Come Brunetta, che viene insolentito durante una conferenza stampa in un fuorionda in cui il ministro dell'Economia si lascia sfuggire giudizi poco onorevoli sul collega che stava parlando. Le riforme sono poche. Quelle che passano, come quella Gelmini sulla scuola e l'università, non sono accolte con grande entusiasmo. E mentre nel mondo esplode la «primavera araba», il ministro degli Esteri Frattini rilascia l'ultima, intempestiva, poco lungimirante dichiarazione a favore di Gheddafi. Del resto, anche il suo premier aveva detto che tra i suoi migliori amici c'erano il tunisino Ben Ali e l'egiziano Mubarak: non è stato un buon viatico. Tirava una brutta aria in Italia, e lo squilibrato che lanciò una statuetta del Duomo sul volto del premier certamente aveva assorbito un'atmosfera ammorbata in forme patologiche.
Intanto la riforma fiscale si perdeva nel nulla, per la terza volta da quando Berlusconi era entrato in politica con la parola d'ordine «meno tasse per tutti». Ogni volta che il premier richiamava il tema, annunciava misure urgenti, prometteva al suo elettorato sempre più deluso che stavolta il «taglio delle tasse», totem oramai mitologico, si sarebbe miracolosamente realizzato, il niet del ministro dell'Economia giungeva puntuale per raggelare ogni entusiasmo, per mortificare gli ultimi illusi. La maggioranza era impegnata in un duello mortale con la magistratura. Legittimo conflitto. Un po' meno legittimo che il Parlamento sia stato costretto a votare sulla certezza che quella sera alla Questura di Milano il premier telefonò in qualità di capo del governo per evitare tensioni con l'Egitto per via della nipote di Mubarak. Ma oramai il governo subiva il paradosso di essere indebolito proprio sul terreno che più gli era congeniale: l'economia e i rapporti con il mondo economico. L'imprenditore «sceso in campo», il cantore del capitalismo e del libero mercato vive il suo momento finale quando i mercati gli voltano le spalle. Un paradosso. E una catastrofe per chi l'ha vissuto. Tre anni e pochi mesi di un governo hanno ottenuto questo risultato paradossale. Non c'è teoria del complotto che possa lenirne la sofferenza.
Pierluigi Battista